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Cuori di strada
Cuori di strada è il sesto lavoro teatrale realizzato dalla Compagnia del Dirigibile, composta da pazienti e operatori del Centro Diurno Psichiatrico di via Romagnoli del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Forlì. È un musical hip hop sul mondo giovanile delle periferie urbane, una metafora del conflitto ben più ampio tra le aspettative ideali e più immediate delle nuove generazioni di emarginati e una società invece sempre più dedita al consumo e al profitto. Gli Strike e le Naif (due piccole bande giovanili) si contendono il predominio dei muri scalcinati del quartiere in cui vivono. Dopo una serie di scontri giungono però a unirsi per far fronte alla decisione del Comune di sgomberare e demolire la loro area urbana per costruire un gigantesco centro commerciale.
Lo scontro fisico con l'Istituzione (che dalla sua ha la legge e i manganelli) è però impari. La soluzione non può quindi che essere trovata a un altro livello e attraverso il dialogo con la società nel suo insieme, che a teatro è rappresentata dal pubblico, chiamato a esprimersi in diretta (un po' come faceva il coro nella tragedia greca) sulle sorti del conflitto.
Oltre ad essere un lavoro dedicato ai giovani delle periferie urbane e ai loro desideri Cuori di strada è una metafora sul pregiudizio, che puntualmente scatta nei confronti di coloro che -
Attraverso questa semplice storia si vuole far dialogare e avvicinare mondi che non comunicano. Non volevamo però tornare a parlare di noi, per evitare di ridurre tutta la questione del pregiudizio alla sola sfera della sofferenza psichica, ma per allargare il discorso alla società e a un’altra categoria sociale spesso vittima come noi del pregiudizio. Allora abbiamo deciso di parlare di questi giovani, anche perché la cronaca internazionale (vedi la rivolta dei ghetti parigini), quella nazionale (vedi le polemiche sui centri sociali) li ha portati prepotentemente alla ribalta.
Non è stato facile mettersi nei panni di protagonisti così giovani, ma ci abbiamo provato, ascoltando e ballando la loro musica, l’hip hop. Ma l’essenza del teatro è proprio questa: quella di imparare a mettersi nei panni dell’altro, a comprenderlo, ad accoglierne le ragioni e ad accettarlo. E lo abbiamo fatto non senza provare il brivido piacevole dell’adolescenza e la sensazione di tornare un po’ più giovani di quello che siamo. Ma anche riprovando quel senso strano d’incertezza (che ancora ci appartiene), quella ingenuità genuina e quella spinta ideale autentica che -
Alla realizzazione dell’opera collaborano anche gli studenti dell’Istituto Statale d’Arte di Forlì guidati dall’insegnante Cristian Casadei, che – seguendo uno schizzo e il soggetto teatrale del regista Michele Zizzari – realizzano l’ambientazione scenografica.
Cuori di strada viene rappresentato nel 2006 al Teatro Comunale di Cesenatico e nel 2007 al Teatro Diego Fabbri e al Piccolo di Forlì per l’8a edizione del Cantiere Internazionale Teatro Giovani diretto da Walter Valeri (docente di teatro a Harvard) e promosso dall’International Theater Center of New England-
Trama e contenuti -
La questione a loro posta è questa: Questa sera sarete voi a decidere. Come volete che finisca questa storia? Cosa desiderate veramente far nascere in questo ipotetico quartiere? Un centro commerciale o un centro sociale dove noi tutti potremo liberamente incontrarci? Questo “destinarsi” al cuore della gente ha una valenza simbolica molto forte: è la speranza in noi stessi, nell’umanità, nella libera coscienza delle persone e della comunità civile.
I temi affrontati sono tanti e di diversa natura, e anche le chiavi di lettura dell’opera si snodano su diversi piani: psicologico, culturale, sociale. Naturalmente -
Approfondimenti -
Nel corso della nostra esperienza abbiamo sempre alternato lavori drammatici fondati sul racconto e sulla parola a lavori più improntati sul movimento, sul ritmo e sull’espressività corporea. Del tutto naturale quindi l’idea di allestire un musical, come avevamo già fatto con successo qualche anno fa; e il ricordo del divertimento che quel lavoro regalò a tutti noi ha finito per convincerci che era la cosa giusta da fare. Come riferimento avevamo i famosissimi West side story, Saranno famosi, La febbre del sabato sera, Grease e così via; ma ci sono sembrati un po’ datati, anche dal punto di vista musicale. Non volevamo fare un revival, ma raccontare una storia che riguardasse il presente, l’attualità, le istanze di generazioni più contemporanee, e i media ci hanno dato una mano. Le notizie delle rivolte dei giovani emarginati parigini e le polemiche sui centri sociali giovanili nostrani (da Torino a Milano, da Bologna a Forlì) erano spesso sulle pagine dei giornali, anche di quelli locali, e nei titoli dei telegiornali. E così leggendo e commentando gli articoli dei quotidiani e i tiggì abbiamo trovato i protagonisti più appropriati per il nostro musical.
Ce li offriva la cronaca, che -
Noi abbiamo pensato che avevamo qualcosa in comune con loro, e abbiamo cominciato ad ascoltare meglio e a ballare la loro musica, l’hip hop, che comunque molti di noi già amavano ascoltare. Abbiamo pensato di avere qualcosa in comune con loro per il semplice fatto che il pregiudizio e la disparità delle opportunità producono sempre malattia, sofferenza psicologica e sociale, diritti negati, emarginazione, indipendentemente dai soggetti verso cui è rivolto.
Ad esempio c’è pregiudizio nei confronti della malattia, ancora vista e spesso vissuta come colpa.
Molte volte la malattia nasconde una connotazione sociale. Il “malato” (tra virgolette) è spesso discriminato, evitato e isolato, anche quando la malattia non è contagiosa. Ciò accade al “malato di mente” (sempre tra virgolette), al disabile, all’omosessuale, al “sieropositivo”, a chi contrae un tumore, a chi si ammala di vecchiaia o di povertà (perché anche la senilità e la povertà sono oggi considerate alla stregua di orrende malattie) e perfino alle donne incinte, che solo per questo rischiano di perdere il lavoro. Vengono poi emarginati e discriminati i migranti, ai quali non si riconoscono i diritti più elementari solo perché hanno la pelle di un altro colore o perché parlano un’altra lingua e chiamano Dio con un altro nome. Cosa si direbbe di una società che decidesse di discriminare tutti quelli che hanno gli occhi azzurri o che parlano un certo dialetto? Il pregiudizio e la disuguaglianza condannano, emarginano e discriminano l’ex detenuto, l’alcolizzato, il nomade, lo straniero, il diverso e così via; fino a coinvolgere chiunque non sia perfettamente sano, bianco e di condizioni agiate, fino a giudicare le persone in base all’abbigliamento. Quale smacco per certi colonialisti inglesi che assistevano al crollo del loro impero ad opera di un omino seminudo coperto solo da uno straccio e da un paio di occhialini! (parlo di Gandhi naturalmente). E sono il pregiudizio e la disuguaglianza a escludere dalla vita sociale i giovani dei ceti meno ambienti; compreso quelli che aspirano a un diverso ideale di vita, più centrato su una socialità solidale e creativa che sul profitto; giovani che chiedono semplicemente di avere la possibilità di incontrarsi e di esprimersi, liberi dai meccanismi ossessivi dell’omologazione sociale, della competizione economica e dalle modalità già codificate dal mercato; senza l’obbligo di doversi comprare una suv, l’ultimo modello del telefonino, di vestire alla moda e di essere per forza dei consumatori, dei “buoni clienti” o polli da spennare. E solo per il loro modo di fare, di vestire e di esprimersi questi giovani sono giudicati fannulloni, strani, fuori dalle regole, pericolosi e così via. Come matti sono giudicati certi artisti, soprattutto quando non sono subito baciati dal successo. Ma l’unica differenza è che l’artista trasforma il delirio che è in tutti noi in opere d’arte: ed è tutta qui appunto la magia terapeutica dell’arte.
Per questo ci siamo rivisti abbastanza in questi ragazzi, perché l’atteggiamento nei loro confronti è spesso lo stesso che si ha nei confronti di coloro che vivono un disagio fisico o psichico. Come loro, anche i “matti” e i “disabili” fanno fatica a essere accettati come parte integrante della comunità; la quale preferisce delegare tutta la questione alle strutture terapeutiche. Neppure a loro è concessa piena cittadinanza, cioè la possibilità di partecipare alla vita sociale secondo le proprie esigenze e le proprie modalità espressive e di comportamento, spesso giudicate inadeguate, non conformi alla norma, né funzionali agli standard produttivi e di efficienza richiesti dall’imperativo dello sviluppo economico.
Scegliendo questi ragazzi come protagonisti del nostro lavoro, come metafora di un disagio più ampio e allargato alla società, avevamo la possibilità di affrontare il tema del pregiudizio in una dimensione più generale, che riguardasse persone anche diverse da noi, anche per dare un messaggio nel senso di un’attenzione verso chi non è esattamente come noi e vive un altro genere di disagio, comunque profondamente connesso col nostro e spesso causa di depressione. Questo per una serie di ragioni: evitare di parlare sempre e soltanto della nostra particolare condizione di disagio (e quindi per non essere auto-
Ma la diffidenza, la paura e il pregiudizio sono superabili e svaniscono nel nulla, assieme a tutti i luoghi comuni che li accompagnano, attraverso il dialogo e il confronto, attraverso la reciproca conoscenza; imparando a rispettare e a vedere nelle diversità di cultura e di opinioni la ricchezza più straordinaria dell’umanità, proprio come la diversità delle specie animali e vegetali, delle acque e dei territori è la condizione indispensabile per la vita e per l’equilibrio ambientale su questo pianeta.
Con Cuori di strada abbiamo voluto proprio compiere questo tentativo: avvicinare mondi diversi, mondi che comunicano poco, o quasi per niente. Come quello di presentare al mondo delle persone ben integrate e bene inserite in società e nel lavoro quello di un certo tipo di giovanissimi che invece ne sono esclusi e che non si riconoscono nei modelli e negli stili di vita dominanti e che per questo o vivono da esclusi nei ghetti o preferiscono fondare comunità solidali utilizzando strutture abbandonate per avere un luogo dove poter socializzare.
Per farlo abbiamo cercato di interpretare e comprendere i loro più semplici desideri, le loro più spontanee attitudini, la loro musica, la loro voglia di esserci e di esprimersi, così come sono. Lo abbiamo fatto oltre il pregiudizio, pensando che molti di questi ragazzi sono nostri figli e nipoti, e che dobbiamo occuparci di loro, dando a loro spazio e voce, come a chiunque altro non li abbia. E con l’idea di un finale aperto (che qui non voglio anticipare) tenteremo in diretta di mettere in comunicazione e a confronto questi mondi -
Al principio vi sono due gruppi di giovani ostili uno all’altro che si confrontano in atteggiamenti aggressivi, senza neppure tentare di parlare, che poi invece scoprono un altro modo di comunicare, non più violento ma fondato sul dialogo e sull’amicizia, e che alla fine giungono addirittura a rimettere le loro sorti esistenziali e la risoluzione di un conflitto (che naturalmente li riguarda ma che è più ampio e più grande di loro) nelle mani di un pubblico che neppure conosce.
Un segno di disponibilità e di consapevolezza impensabile all’inizio della storia.
Non è stato facile mettersi nei panni di questi giovani, muoversi e ballare alla loro maniera e così via; ma è proprio questo il messaggio del teatro: sviluppare la capacità e la sensibilità di vedersi nell’altro e comprenderlo. Io è un altro, scrive Rimbaud. Certo il nostro è solo un musical, che potrà apparire anche un po’ ingenuo, ma una storia -